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CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO - Sentenza 14 aprile 2011, n. 8527
 

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L'onere di contestazione nella Legge 69/2009

Articolo di Giuseppe Buffone

 

da www.altalex.it

Sommario: 1. Art. 115, I c.p.c.: relevatio ab onere probandi. - 2. Fatto non contestato e discrezionalità del giudice - 3. Ratio legis: incidenza anche sul principio del "giusto processo" - 4. Evoluzione pretorile dell'istituto - 5. Non contestazione e "triplice" effetto per il processo - 6. Contestazione "tempestiva" - 7. Ambito applicativo - 8. La "specificità" della contestazione e la "negazione" del fatto - 9. Tecnica di non contestazione: le regole - 10. Contumacia e parti - 11. Bilateralità dell'onere di contestazione - 12. Limiti -. Bibliografia

[1]. Il saggio di legificazione contenuto nella l. 18 giugno 2009 n. 69 contiene diverse previsioni normative che, in vario modo e con diverso approccio, recepiscono orientamenti di giurisprudenza ormai consolidati o in via di consolidarsi. Un ruolo preminente spetta, senz'altro, al principio di contestazione, recepito dal legislatore della riforma nel "nuovo" art. 115, comma I, c.p.c..

"salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita".

L'ultimo inciso («fatti non specificamente contestati») approda nell'art. 115 cit., per l'appunto, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 69/09 cit. la quale ha, di fatto, convalidato la giurisprudenza di Cassazione che, a partire dall'arresto a Sezioni Unite del 2002 (sentenza n. 761), ha affermato l'esistenza, nell'ordinamento processuale civile, di un onere di contestazione per le parti, legato ai fatti introdotti dall'altra2, ritenendo che il deficit di contestazione "rende inutile prove il fatto, poiché non controverso ... vincolando il giudice a tenerne conto senza alcuna necessità di convincersi della sua esistenza".

Vi è chi, invero, già passato, autorevolmente scriveva che «dinanzi al magistrato non si va per tacere ma bensì per parlare, per far conoscere le proprie ragioni e i torti dell'avversario con dichiarazioni precise, positive e pertinenti alla lite» (L. Mortara). Il punctum pruriens involgeva, tuttavia, gli effetti che produceva il "silenzio" della parte costituita sulle affermazioni dell'altra. L'art. 115 novellato dà una risposta ora normativa poiché recepisce il principio per cui la non contestazione di fatti allegati dalla controparte vale relevatio ab onere probandi per il deducente (Sassani, 5)3. Vengono così recepiti gli insegnamenti di quella autorevole Dottrina che, già da tempo, aveva ritenuto che per la concreta determinazione del thema probandum, occorresse fare riferimento ad un principio tacito, ma non per questo meno importante, in tema di prova: per l'appunto, il principio di non contestazione. Secondo la dottrina citata, si tratta di un principio «di diuturna applicazione nelle controversie civili, di importanza essenziale per non rendere impossibile o comunque eccessivamente difficile l'onere probatorio delle parti ed in ispecie dell'attore, per evitare il compimento di attività inutili e quindi realizzare esigenze di semplificazione e di economia processuale»4.

[2]. Un primo dato di rilievo va evidenziato.

Il Legislatore ha scelto una precisa collocazione topografica del principio. Avrebbe, infatti, potuto inserirlo nel primo comma dell'art. 115 ovvero nel secondo.

La collocazione, nell'una o nell'altra volta, determina conseguenze rilevanti in punto di regime giuridico applicabile e, in specie, quanto al potere discrezionale del giudice al cospetto del fatto non contestato (o contestato genericamente).

115 Comma I

Il giudice deve porre a fondamento della decisione .....

115 Comma II

Il giudice può porre a fondamento della decisione ....

Ciò vuol dire che i fatti non contestati "DEVONO" essere posti a fondamento della decisione senza che residui discrezionalità per il giudicante, cosa che è consentita solo nel secondo comma dell'art. 115 c.p.c. La realtà è che la collocazione topografica depone nel senso di dovere ritenere "provati" i fatti non contestati e, cioè, farli confluire nel concetto di "prova" che è menzionato nel comma I dell'articolo in esame5.

Fatto non contestato = Fatto provato

Dalla qualificazione del fatto non contestato come fatto provato (alcuni specificano: perché pacifico6) deriva la "irreversibilità della originaria non contestazione, non in forza di una decadenza che non è scritta nella legge, ma in via di interpretazione sistematica (Vallebona, 2).

Giova, dunque, rilevare che il giudice che non porrà a fondamento della decisione un fatto non contestato incorrerà in error in procedendo per violazione dell'art. 115, comma I, c.p.c. E' quanto già affermava la Suprema Corte prima della legge 69/09 (v. Cassazione civile , sez. III, 05 marzo 2009 , n. 5356): "l'art. 167 c.p.c., imponendo al convenuto l'onere di prendere posizione sui fatti costitutivi del diritto preteso dalla controparte, considera la non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il giudice, che dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e dovrà, perciò, ritenerlo sussistente, in quanto l'atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti".

Ancora più esplicitamente: il "fatto non contestato non ha bisogno di prova perchè le parti ne hanno disposto, vincolando il Giudice a tenerne conto senza alcuna necessità di convincersi della sua esistenza"7.

Sono, dunque, senz'altro corrette le osservazioni di chi, già in passato, ha esaminato l'istituto pervenendo alla conclusione per cui «la non contestazione è diretta all'attribuzione di efficacia probatoria (in questo caso di prova legale) a fatti non investiti dalla fase dell'accertamento probatorio; accertamento probatorio che, proprio in virtù dell'intervenuta non contestazione, si rivela superfluo»8.

Il fatto non contestato, pertanto, acquista l'efficacia tipica della prova legale.

[3]. La ratio del principio di non contestazione, tenuto conto dell'architettura generale della legge 69/2009, va ricercata nelle superiori esigenze di semplificazione del processo e di economia processuale, o anche, se si vuole, nella responsabilità o autoresponsabilità delle parti nell'allegazione dei fatti di causa9. Non si tratta, pertanto, di una sanzione10. Non deve ignorarsi, però, che la Cassazione più recente non ha esitato a ritenerlo protetto da rilievo costituzionale, quale strumento per garantire un "giusto processo". In particolare, Cass. civ. 24 gennaio 2007 n. 1540 (sez. tributaria) ha affermato che il c.d. "principio di non contestazione" - da intendersi correttamente come onere di contestazione tempestiva, col relativo corollario della non necessità di prova riguardo ai fatti non tempestivamente contestati, e, a fortiori, non contestati tout court - è invocabile anche nel processo tributario, sia perché questo, essendo strutturato sulla falsariga del processo civile, ha natura dispositiva come quello ed è anch'esso caratterizzato da un sistema di preclusioni, sia per la incidenza del principio di ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost. "Questo non può essere inteso soltanto come monito acceleratorio rivolto al giudice in quanto soggetto del processo, ma soprattutto al legislatore ordinario ed allo stesso giudice in quanto interprete della norma processuale - dovendo ritenersi che una lettura costituzionalmente orientata delle norme sul processo non possa mai prescindere dal principio in esame -, nonché alle parti, che, specie nei processi dispositivi, devono responsabilmente collaborare alla ragionevole durata del processo, dando attuazione, per quanto in loro potere, al principio di economia processuale e perciò immediatamente delimitando, ove possibile, la materia realmente controversa.

[4]. La riforma, comunque, recepisce il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui la mancata contestazione di un fatto allegato dalla controparte comporta la sua ammissione, principio anche di recente difeso dalla Suprema Corte (cfr. Cassazione Sezione Prima Civile n. 5191 del 27 febbraio 2008, Pres. Luccioli, Rel. De Chiara) e dalla giurisprudenza di merito. In proposito - acclarato che la non contestazione vale come comportamento processualmente rilevante se riferito a fatti e non all'applicazione di regole giuridiche - la sentenza delle Sezioni Unite n. 761 del 200211 facendo leva sull'onere del convenuto - previsto dall'art. 416 c.p.c., per il rito del lavoro, e dall'art. 167, primo comma, c.p.c. (come novellato dalla legge 26 novembre 1990, n. 353), per il rito ordinario - di prendere posizione, nell'atto di costituzione, sui fatti allegati dall'attore a fondamento della domanda, ha affermato che il difetto di contestazione di quei fatti ne implica l'ammissione in giudizio se si tratta di fatti c.d. principali, ossia costitutivi del diritto azionato (Buffone, Profili .., 2).

E' opportuno evidenziare che a questa sistematica della materia - germinata dall'esame del rito nel processo del lavoro - sono seguiti ulteriori sviluppi, con l'affermazione del più ampio principio secondo cui "l'onere di contestazione tempestiva non è desumibile solo dagli artt. 167 e 416 c.p.c., ma deriva da tutto il sistema processuale, come risulta:

a) dal carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena;

b) dal sistema di preclusione, che comporta per entrambe le parti l'onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa;

c) dai principi di lealtà e probità posti a carico delle parti;

d) infine, soprattutto, dal generale principio di economia che deve informare il processo, avuto riguardo al novellato art. 111 Cost.;

conseguentemente, ogni volta che sia posto a carico di una delle parti (attore o convenuto) un onere di allegazione (e prova), l'altra ha l'onere di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi tale fatto pacifico e non più gravata la controparte del relativo onere probatorio, senza che rilevi la natura di tale fatto (Cass. 12636/2005, preceduta da Cass. 3245/2003, riferita al solo processo del lavoro, e seguita da Cass. 1540/2007, che ha esteso il principio al processo tributario).

Alla descritta evoluzione della giurisprudenza di Cassazione, il Legislatore ha reputato di dover dare continuità, confermando, quindi, la sussistenza di un onere, per la parte costituita, di contestare tempestivamente i fatti allegati dalla parte avversaria, che altrimenti è esonerata dal fornirne la prova. L'orientamento recepito nell'art. 115 c.p.c. era stato, invero, respinto sia da una parte della giurisprudenza che da una parte della dottrina: e, tuttavia, sotto la volta del "giusto processo", come disegnato nell'art. 111 Cost., l'opzione avversa si rivela idonea a vulnerare sia la ragionevole durata del procedimento, sia la regola dell'economia.

Ed, invero, la stessa giurisprudenza di Cassazione a favore del principio della "non contestazione" non omette di rilevare come, i precedenti in distonia, si limitino a "confermare acriticamente il precedente orientamento (v. Cass. 2959/2002, 13830/2004, 5488/2006)", (così Cass. Civ. 5191/2008, già cit.).

Nel ventaglio dei fatti introdotti nel giudizio, dovrà dunque effettuarsi un distinguo: andranno a confluire nel thema probandum solo i fatti «beweisbedürftige» ovvero, secondo la dizione tedesca, quelli "bisognosi di prova": tali non sono i fatti non contestati che, in quanto ammessi, sono pacifici.

[5]. Il difetto di contestazione implica l'ammissione dei fatti dedotti in giudizio e produce un triplice effetto: un effetto per chi doveva contestare (e non l'ha fatto), un effetto per il deducente (colui che allega il fatto non contestato), un effetto per il giudice.

Per il contestatore: il principio comporta che i fatti allegati dalla parte avversaria, qualora non siano contestati, debbono essere considerati incontroversi e non richiedenti una specifica dimostrazione (si v. Cass. civ., sez. 2, sentenza n. 27596 del 20 novembre 2008, ove la Suprema Corte ha cassato la sentenza di merito che aveva respinto la domanda di accertamento dell'esistenza di una servitù di passaggio sul rilievo che gli attori non avevano allegato alcun fatto costitutivo del diritto stesso, senza tenere in adeguata considerazione che l'esistenza del diritto non era stata contestata dai convenuti e che l'unico oggetto del giudizio consisteva nello stabilirne l'estensione e le modalità di esercizio).

Per il deducente: questo sarà esonerato dall'onere della prova.

Per il giudice: avrà l'obbligo di ritenere il fatto provato senza svolgere istruttoria al riguardo. Alcuni commentatori reputano che, nonostante il disposto dell'art. 115, comma I, c.p.c., residui uno spazio di discrezionalità del Giudice nel valutare il fatto non contestazione. L'opinione è da respingere. Come si scrisse già, a commento delle Sezioni Unite 761/02, la non contestazione (per la dottrina citata: una particolare ipotesi di ammissione implicita) «non è rimessa alla valutazione caso per caso del giudice circa la effettiva incompatibilità logica tra impostazione difensiva del convenuto e negazione del fatto, ma viene ricavata una volta per tutte direttamente dalla legge, intesa nel senso della automatica equiparazione tra omessa o generica contestazione e ammissione del fatto non contestato» (Vallebona, 2).

Un problema diverso può, tutt'al più, riguardare l'eventuale contrasto tra fatto non contestato ed altre prove legali acquisite alla piattaforma probatoria (ad es. un documento acquisito ex art. 210 c.p.c. che si ponga in contrasto con la prova emergente dalla non contestazione). Ma tale impasse non va risolto svilendo l'efficacia probatoria del fatto non contestato bensì mediante corretta applicazione dell'art. 116, comma I12, c.p.c. e, cioè, valutando con prudenza l'impianto di prove acquisite. Ciò può comportare che il giudice si convinca nell'attribuire maggiore peso probatorio ad una prova piuttosto che ad un'altra (dovendo, però, motivare sul punto).

[6]. Quale è l'ultimo momento utile per contestare i fatti avversi? Parte della dottrina afferma essere le memorie di replica ex art. 183, comma VI, n. 213, ove si chiude il sipario sul panorama probatorio. La giurisprudenza, tuttavia, ha puntualizzato che l'onere di contestazione deve essere assolto nella prima difesa utile (Cass. civ. 27 febbraio 2008 n. 5191; Cass. civ. 21 maggio 2008, n. 13079). L'orientamento più recente della Cassazione si fonda sul dettato legislativo che indica in quali atti il convenuto deve prendere posizione sulle deduzioni dell'attore. Si tratta, innanzitutto, della comparsa di risposta ex art. 167 c.p.c.: "nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda".

Deve, allora, ritenersi che il principio introdotto (rectius: riconosciuto) nell'art. 115 c.p.c. debba essere coordinato con le regole già esistenti e, dunque, l'onere di contestazione vada adempiuto con la prima difesa utile.

Va ricordato, comunque, che la questione (con riferimento al rito del lavoro) è stata risolta nella motivazione della sentenza Sez. Un. 761 del 23 gennaio 2002 che ha particolarmente approfondito la questione esponendo le argomentazioni fondamentali sulle quali si è basata, poi, la nuova giurisprudenza.

In detta decisione infatti si legge: "...Il menzionato difetto di contestazione...omissis... A) se concerne fatti costitutivi del diritto, si coordina al potere di allegazione dei medesimi e partecipa della sua natura, sicchè simmetricamente soggiace agli stessi limiti apprestati per tale potere; in altre parole, considerato che l'identificazione del tema decisionale dipende in pari misura dall'allegazione e dall'estensione delle relative contestazioni, risulterebbe intrinsecamente contraddittorio ritenere che un sistema di preclusioni in ordine alla modificabilità di un tema siffatto operi poi diversamente rispetto all'uno o all'altro dei fattori della detta identificazione".

La dottrina14, peraltro, ha osservato che «la contestazione tardiva (vale a dire la contestazione successiva ad un fatto originariamente incontestato), in quanto comportamento che può provenire esclusivamente dalla parte (che inizialmente non aveva contestato), può essere assimilata all'eccezione in senso stretto»: conseguentemente, in considerazione di quanto previsto dagli art. 345, 2° comma, e 437, 2° comma, c.p.c., la contestazione successiva di fatti rimasti incontestati nel giudizio di primo grado deve ritenersi inammissibile in appello, sia nel processo del lavoro che nel rito ordinario (salva la rimessione, oggi ex art. 153 c.p.c.).

[7]. La non contestazione va considerata come comportamento processualmente rilevante se riferito a fatti e non all'applicazione di regole giuridiche: le questioni di diritto sono estranee all'applicazione dell'art. 115 c.p.c..

Fermo restando, poi, il comune presupposto della rilevanza limitata ai casi di non contestazione di fatti, occorre nondimeno osservare come secondo la giurisprudenza sinora formatasi le conseguenze variano in relazione al tipo dei fatti di cui trattasi, come suggerirebbe il testuale tenore delle norme, ex artt. 115, 167 e 416 c.p.c., istitutive dell'onere suddetto, lette alla luce di rilievi sistematici sulla struttura del processo in cui esse si inseriscono.

Si afferma, dunque, che il difetto di contestazione implica l'ammissione dei fatti dedotti in giudizio se si tratta di fatti c.d. principali, ossia costitutivi del diritto azionato: per i fatti c.d. secondari, ossia dedotti in esclusiva funzione probatoria, la non contestazione costituirebbe, invece, argomento di prova ai sensi dell'art. 116, secondo comma, c.p.c..

Occorrerebbe, allora, distinguere i fatti costitutivi del diritto, dalle circostanze dedotte al solo fine di dimostrare l'esistenza dei fatti costitutivi: posta tale distinzione, la giurisprudenza richiamata conclude che nei «fatti posti dall'attore a fondamento della domanda», dei quali appunto è menzione nelle dette norme, è palesemente riconoscibile il connotato della prima categoria di fatti, potendosi della funzione fondante rispetto alla pretesa accreditare esclusivamente i fatti giuridici costitutivi della medesima. Per i fatti secondari, il difetto di contestazione potrà essere utile al giudice come argomento di prova ex art. 116, secondo comma cod proc. civ. (Cassazione civile , sez. un., 23 gennaio 2002 , n. 761).

Può ritenersi che la riforma abbia esteso il principio di non contestazione anche ai fatti secondari? Per un verso, dando credito al filone metodologico, deve ritenersi che il legislatore abbia recepito non più e non meno di quanto era già presente nella giurisprudenza: ed allora la differenza tra fatti principali e fatti secondari conserverebbe valenza sistematica.

Per altro verso, le norme che hanno costituito l'emersione a valle del principio a monte, sono rimaste immutate (in particolare, l'art. 167 c.p.c. che continua a individuare, come fatti da contestare, quelli posti a fondamento della domanda, cioè i fatti primari).

In realtà deve propendersi per una estensione del principio a tutti i fatti.

Il riferimento a "quelle norme" era, per l'appunto, determinato dalla carenza di altri referenti normativi. Ma, allo stato, il principio di non contestazione è stato tipizzato dal legislatore in via generale e senza porre l'accento sui soli fatti primari.

Ciò è anche in linea con lo spirito della riforma e recepisce quelli che erano i suggerimenti della migliore dottrina. Questa affermava che la distinzione tra valore della non contestazione dei fatti principali e valore della non contestazione dei fatti secondari non reggesse poiché la non contestazione «opera allo stesso modo sia riguardo ai fatti principali che riguardo ai fatti secondari»15 (v. al riguardo, comunque, Cass. 17 aprile 2002, n. 5526, Foro it., 2002, I, 2017).

Il principio di contestazione, pertanto, si applica sia ai fatti primari che secondari.

[8]. Quale contenuto deve avere la contestazione per impedire l'ammissione dei fatti?

La disposizione è chiara: determinano un vicolo per il giudice "i fatti non specificatamente contestati". Ciò vuol dire che la contestazione generica equivale a difetto di contestazione.

La contestazione, per essere efficace, deve essere "specifica". Ecco, allora, un elenco di formule che sono oggi da considerare contestazioni generiche e, perciò, producono gli effetti di cui all'art. 115, comma I, c.p.c.

Contestazioni GENERICHE

(equivalenti a difetto di contestazione)

La parte impugna e contesta quanto ex adverso dedotto

Le deduzioni avverse sono sfornite di prova

Quanto dedotto da parte avversa è falso e non corrisponde a verità

Si contesta sotto ogni aspetto quando dedotto da parte avversa

La domanda è inammissibile, improcedibile, improponibile e, comunque, infondata in fatto e diritto

Conferma di quanto sin qui esposto si ricava dalla recentissima Cass. civ. 5356/2009:

«l'assunto di aver "...impugnato e contestato la domanda formulata dalla controparte perchè infondata in fatto ed in diritto" riguarda una affermazione difensiva assolutamente generica»

E', al contrario, specifica una contestazione che contrasta il fatto avverso con un altro fatto diverso o logicamente incompatibile oppure con una difesa che appare seria per la puntualità dei riferimenti richiamati. Un esempio può essere chiarificatore.

(Attore: Caio; Convenuto: Tizio)

Attore: Tizio ha colpito Caio al volto e gli ha provocato la rottura del setto nasale

Contestazione: Ipotesi 1 - Convenuto: Si impugna e contesta quanto dedotto da Caio

Contestazione: Ipotesi 2 - Convenuto: Tizio non ha colpito al volto Caio ma all'addome, per cui la rottura dei denti non è stata causata dal convenuto

Contestazione: Ipotesi 3 - Convenuto: Tizio non ha colpito Caio che è stato colpito sa Sempronio.

Contestazione: Ipotesi 4 - Convenuto: NEGO di aver colpito Caio al volto e di avergli provocato la rottura del setto nasale (firm. Caio)

La contestazione n. 1 è generica. Le contestazioni ai numeri 2 e 3 sono specifiche.

La narrazione, da parte del convenuto, di fatti logicamente incompatibili con quelli sostenuti dall'attore è equiparabile alla contestazione specifica? La dottrina16 intervenuta sul punto esprime opinione favorevole e la soluzione è del tutto condivisibile per i motivi addotti a sostegno della tesi: se la ratio della norma è quella di salvaguardare la "struttura dialettica a catena" , a tanto si perviene anche con la deduzione di fatti incompatibili con il narrato dell'attore.

Deve precisarsi che il principio di non contestazione deve necessariamente essere coordinato con il principio di vicinanza della prova: e, cioè, la specificità della contestazione varierà a seconda della prossimità del contestatore al fatto. Non è, infatti, sempre possibile contestare in modo dettagliato e specifico: si pensi ai casi in cui il fatto accade sol perché narrato dall'attore, là dove il convenuto - in passato - negava la verità del fatto e si affidava all'onere della prova gravante sull'avversario. Si pensi al caso in cui un soggetto assuma di essere caduto, in un determinato giorno, di una determinata ora, presso una insidia del manto stradale. Come può l'ente convenuto contestare specificamente la dinamica dell'accaduto? E' chiaro che in casi del genere il giudice dovrà alleggerire il peso dell'onere di contestazione.

Va, in tal senso, recepito quanto già sostiene la giurisprudenza nel rito lavoro, posto che, allo stato, la non contestazione è principio comune ai due riti.

Quanto alla ipotesi n. 4 di contestazione, una querelle, in argomento, ha investito in passato l'efficacia - ai fini dell'assolvimento dell'onere di contestazione - della mera negazione del fatto. Si è sostenuto, infatti, che i requisiti di precisione e non genericità prescritti dalla legge non escludono la sufficienza della "mera secca negazione del fatto", da qualificare come modo estremamente preciso di prendere posizione. L'opinione non può essere condivisa. Come ha scritto la dottrina, al riguardo, aderendo alla tesi suaccennata, la rilevanza pratica dell'onere di non contestazione «è destinata a scemare rapidamente, poiché i legali prudenti, nel difendere il convenuto, si adegueranno a quanto richiesto e provvederanno a negare esplicitamente i fatti affermati dal ricorrente che non intendono dare per pacifici» (Vallebona, 6). Ed, allora, una contestazione non può dirsi specifica ove si limiti a negare il fatto avverso.

[9]. Cassazione civile, sez. lavoro, sentenza 15.04.2009 n. 8933, in particolare, ribadisce che "negare il fatto avverso", tout court, equivale a contestazione generica ma ribadisce, anche, tali altri principi pur di grande importanza:

  1. contestare sostenendo che la parte avversaria non ha provato i fatti dedotti ed allegati costituisce una contestazione meramente apparente, come tale equivalente alla "non contestazione":
  2. in tanto può operare il principio di non contestazione in quanto le circostanze oggetto della contestazione siano «nella sfera di conoscenza e di disponibilità del contestatore»;
  3. la contestazione generica, in presenza di fatti ritualmente allegati dalla controparte in modo preciso e puntuale, va equiparata alla mancanza di contestazione,
  4. per potersi assegnare alla contestazione un effettivo rilievo processuale devono, con essa, venire richiamate circostanze fattuali a tal fine pertinenti e significative,
  5. l'adempimento da parte dell'attore dell'onere di individuare con precisione nel libello introduttivi i fatti allegati è necessario al fine di consentire un'efficace contestazione di essi da parte del convenuto,
  6. l'onere di contestazione va valutato tenendo conto anche della concreta possibilità del convenuto di avere conoscenza specifica dei fatti allegati.

[10]. E' opportuno precisare che i principi sin qui richiamati, non riguardano il processo in contumacia17: se il convenuto non si costituisce, i fatti affermati dall'attore non si reputano "non contestati", poiché detta regola del processo contumaciale "è in contrasto con la tradizione del diritto processuale italiano, nel quale alla mancata o tardiva costituzione mai è stato attribuito il valore di confessione implicita" (Corte Costituzionale, sentenza 12 ottobre 2007 n. 340).

Ed, infatti, l'art. 115 c.p.c. fa riferimento alla "parte costituita".

Autorevole dottrina, in tal senso, ha da data risalente affermato che il principio in questione non può mai trovare applicazione in caso di contumacia consistendo la stessa in «un comportamento equivoco e non concludente»18.

Ma cosa accade in caso di litisconsorzio con un convenuto contumace? Si pensi al tipico caso dei sinistri stradali (ove, in genere, il proprietario del mezzo resta contumace).

A parere di chi scrive dovrebbe propendersi per l'applicazione dei medesimi teoremi che la Cassazione ha costruito per la confessione nel giudizio liticonsortile. Al riguardo, le S.U. (sentenza 5.5.2006, n. 10311), in ipotesi di litisconsorzio necessario hanno affermato che, ai sensi dell'art. 2733, c. 3, c.c., la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorzi è liberamente apprezzata dal giudice, in relazione a tutti i litisconsorzi e non solo in relazione ai non confitenti. Hanno precisato, in particolare, che i rapporti non possono essere regolati diversamente tra le parti del giudizio essendo i fatti gli stessi.

La circostanza che uno solo dei litisconsorti ammetta il fatto, non contestandolo, non può, peraltro, rendere pacifico quel fatto in presenza di un convenuto contumace, poiché si frustrerebbero le sue ragioni ed il suo diritto di difesa che si esplica nella impossibilità di far conseguire dalla contumacia effetti pregiudizievoli.

Deve, dunque, propendersi per il mero argomento di prova ovvero per il fatto che può essere liberamente apprezzato dal giudice.

[11] Si è scritto, a commento del nuovo art. 115 c.p.c., che ad una prima lettura "la nuova norma sembra addossare l'onere di contestazione - e tutte le conseguenze che derivano dal suo mancato assolvimento - alla sola parte convenuta" (Corrado, 1).

L'assunto non può essere condiviso. La lettera della disposizione è chiara nel riferirsi, per precisa scelta, alla "parte costituita", con ciò riferendosi non solo al convenuto ma anche all'attore, ancor più, ad esempio, laddove sia stata proposta domanda riconvenzionale. Si vuol dire che l'onere di contestazione è bilaterale.

"Il principio della parità di trattamento delle parti del processo impone di applicare la affermata equiparazione del fatto non contestato al fatto pacifico anche ai fatti fondanti le eccezioni del convenuto e che il ricorrente deve contestare alla prima udienza" (Vallebona, 5).

Stesso dicasi per l'eventuale terzo chiamato in causa.

Al riguardo va precisato che l'intervento del terzo non trova alcuna preclusione nel difetto di contestazione delle altre parti: ove il fatto sia ad esso comune, questo, costituendosi, può contestare le circostanze fattuali che trova in giudizio, sottraendole dall'alveo dei fatti non contestati.

Si pensi, ad esempio, al garante che contesta l'an della responsabilità ove il garantito aveva contestato solo il quantum debeatur.

Va, in ultimo, precisato che la struttura dialettica a catena del processo civile fa si che divengano non contestati anche i fatti la cui ammissione è compatibile con talune contestazioni della parte. Del pari la contestazione di un fatto si estende a quelli incompatibili con la stessa.

Ad esempio.

Se Tizio contesta di avere investito Caio, sostenendo che ad investirlo sia stato Sempronio, la contestazione si estende al quantum, anche se sul punto nulla è stato detto, poiché la contestazione del fatto a monte è incompatibile con l'ammissione del fatto a valle. Al contrario, se Tizio contesta il danno subito da Caio, sostenendo che questi non avesse le cinture, è chiaro che non viene in contestazione il fatto del sinistro, la cui ammissione è compatibile con il contestare le sole conseguenze dannose dell'illecito.

[12]. Un limite all'applicazione del principio di contestazione va, comunque, rinvenuto nelle procedure in cui vengono in rilievo diritti indisponibili della persona ovvero interessi per cui è posto a garanzia e controllo il giudice: tipico il caso dei procedimenti in materia di famiglia ove siano coinvolti minori. Il fatto che i genitori, ad esempio, lascino "pacifico" un fatto non impedisce al giudice di svolgere comunque istruttoria sullo stesso ove l'interesse superiore del minore lo richieda.

Il presupposto logico-giuridico dell'applicazione del principio di non contestazione è, dunque, rappresentato dai «fatti disponibili»

Aderendo, dunque, alla teorizzazione della migliore dottrina, deve ritenersi che il principio di non contestazione non trovi applicazione:

  1. nei processi relativi a diritti indisponibili: in queste controversie le parti non possono, con il loro contegno processuale, vincolare in alcun modo la decisione del giudice.
  2. Per i contratti per cui è richiesta la forma scritta ad substantiam: in tal caso, il potere del giudice di rilevare d'ufficio la nullità prevale (ed eventualmente inibisce) l'efficacia vincolante della non contestazione (si pensi ai contratti della Pubblica Amministrazione).
  3. Nel processo contumaciale: poiché la ficta confessio è incompatibile con il nostro sistema processuale (come disegnato dalla Costituzione).

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1 Tratto da: Buffone G., La riforma del processo civile, Buffetti editore, 2009. Il testo è stato, da ultimo, discusso in occasione del "Seminario di approfondimento del 18 settembre 2009, Varese: La riforma del processo civile", organizzato dal Tribunale di Varese.

2 Ma va precisato: originariamente solo per il rito del lavoro.

3 V. Proto Pisani, Ancora sulla allegazione dei fatti e sul principio di non contestazione nei processi a cognizione piena (nota a Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2006, n. 6092; Cass. civ., sez. lav., 6 febbraio 2006, n. 2468; Cass. civ., sez. lav., 30 gennaio 2006, n. 2035) in Foro It., 2006, 11, 1, 3143.

4 La dottrina citata è Proto Pisani La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991, 158 ss.; v. anche Lezioni di diritto processuale civile, 4a ed., Napoli, 2002, 108 s.

5 Per alcuni, la non contestazione è da equiparare alla ammissione implicita.

6  Vallebona, L'onere di contestazione nel processo del lavoro in www.judicium.it.

7 Cassazione civile , sez. III, 21 maggio 2008 , n. 13078.

8 Sicuramente da leggere integralmente: C. M. Cea, La tecnica della non contestazione nel processo civile in Giusto processo civile, 2006, fasc. 2, 173 ss.

9 così già Carratta, Il principio della non contestazione nel processo civile, Milano, 1995., 262 ss.; della stessa idea Proto Pisani.

10 Vallebona, L'onere di contestazione nel processo del lavoro in www.judicium.it.

11 Crea, Il principio di non contestazione al vaglio selle sezioni unite (nota a Cass., sez. un., 23 gennaio 2002 n. 761) in Foro It., 2002, I, 2017.

12 Come correttamente rileva, in dottrina, F. Danovi.

13 Alpa, Mariconda, Codice civile commentato, 2009, IV, 98.

14 Cea, Commento della sentenza SS.UU. 761/2002 in Foro it., 2002, I, 2017 ss., 2026.

15 Il già più volte citato Proto Pisani il quale rievoca, anche, Carnelutti, La prova civile, Roma, 1915, 16 ss..

16 Viola, Il nuovo principio di non contestazione nella riforma del processo civile.

17 Vidiri, La contumacia ed il principio di non contestazione nel processo del lavoro in Mass. Giur. Lav., 2005, 6, 494.

18 E' l'opinione di Verde.

 


Cassazione Civile: no alla suddivisione della casa familiare in sede di divorzio
11-01-2012

da www.filodiritto.it 

 

In un giudizio di divorzio, la Suprema Corte ha confermato la sentenza resa dalla Corte d'Appello di Palermo che assegnava alla moglie controricorrente la "casa familiare", rigettando altresì la domanda di suddivisione della medesima in due unità abitative.

In particolare, il marito ricorrente lamentava la violazione dell'articolo 6, comma 6 della legge divorzio n. 898/1970, sostenendo che la norma prevede l'assegnazione della casa coniugale, ovvero "quella di fatto abitata dalla famiglia in modo continuativo e non di una che la famiglia non abbia mai abitato o dove abbia soggiornato solo saltuariamente". Alla predetta contestazione la Corte seguiva l'orientamento dei giudici di merito, che riconoscevano, "con motivazione congrua e non illogica", che la casa assegnata "era per l'appunto quella coniugale, quando i coniugi convivevano, ed ha continuato ad essere abitata, sostanzialmente senza soluzione di continuità dalla controricorrente insieme con il figlio", che, pur abitando per motivi di studio presso altra località, tornava sempre a casa nel fine settimana.

Più interessante, l'altra questione sottoposta all'attenzione della Corte: la violazione della già citata disposizione, dell'articolo 42 della Costituzione e dell'articolo 832 del Codice Civile per la mancata divisione dell'immobile ed assegnazione di una parte al marito e di una alla moglie.

Anche questo motivo di ricorso è stato respinto dalla Suprema Corte che ha richiamato e confermato l'impugnata sentenza nella parte in cui "chiarisce che la suddivisione in due unità abitative, trasformando l'immobile, sconvolgerebbe l'ambiente domestico in cui il giovane figlio delle parti è vissuto, senza contare la conflittualità esistente tra i ricorrente e la moglie nonché la pessima influenza della vicinanza del padre, desumibile dal provvedimento di decadenza dalla potestà, tale da costituire una sicura e continua minaccia alla serenità e salubrità dell'ambiente di vita del figlio". Al riguardo, la Corte precisa altresì che il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse del figlio (ex art. 155 quater Codice Civile).

Confermando le motivazioni e la sentenza dei Giudici di merito, la Corte ha rigettato il ricorso.

 


 
 

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